Il nostro Paese versa annualmente all’Unione Europea 15 miliardi di euro e ne riceve 10, partecipando così al finanziamento dei benefici fiscali fruiti dagli altri Paesi membri con un esborso netto di 5 miliardi laddove l’Olanda, sulla base del proprio PIL, versa annualmente solo 5 miliardi. La contribuzione netta annuale, quindi, fa sì che alla fine del settimo anno il contributo netto italiano a favore dell’Unione Europea sarà di 35 miliardi. Sicché con il Recovery Fund portato trionfalmente a casa da Giuseppe Conte ci rimetteremmo la bellezza di 3 miliardi di euro se tutto andrà bene
– Giuseppa Alessandro*-
In questi giorni e per ancora lungo tempo sentiremo parlare di Recovery Fund, ovvero impareremo a nostre spese a comprendere quanto siano stati azzardati i meriti attribuiti al nostro premier da un main-stream servile e genuflesso, un premier che ha raccontato di aver portato a casa una vittoria italiana in Europa mentre in realtà ha sottoscritto un documento che consegna il nostro Paese nelle mani dei falchi europei vogliosi di preda. Ma è il momento di comprendere bene dove l’Italia si è andata ad infilare spinta dagli egoismi dei politici che ci rappresentano e dei partner europei.
Il Recovery Fund, ribattezzato Next Generation U.E., è uno strumento di finanziamento che agisce rastrellando moneta sui mercati finanziari avvalendosi della garanzia di rimborso prestata da tutti i 27 Paesi dell’Unione. La necessità di raccogliere liquidità sui mercati è data dal fatto che né l’Unione Europea, né i singoli Paesi, hanno capacità di emettere nuova moneta in quanto tale prerogativa è stata demandata alla banca centrale, ossia la BCE, che di moneta ne emette ben poca o affatto. In poche parole L’Europa si indebita e il proprio impegno di rimborso grava unicamente sul bilancio comunitario che, operando a somma zero (la spesa dell’UE è un gioco a somma zero), deve essere sostenuto dalle contribuzioni dei Paesi membri.
I fondi provenienti dal Recovey Fund per un ammontare di 750 miliardi quindi, come strumento finanziario di sostegno dell’UE, dovranno essere raccolti sui mercati in un arco temporale che si concluderà nel 2026; annualmente tutti gli Stati membri saranno chiamati, come accade abitualmente, a versare una contribuzione al bilancio commisurata al Reddito Nazionale Lordo, dove il RNL è il PIL aumentato della somma algebrica dei redditi di competenza in entrata e in uscita di ciascun Paese. In particolare, della somma complessiva stanziata 390 miliardi di euro saranno somministrati in forma di grants o sovvenzioni, mentre 360 miliardi verranno invece somministrati in forma di prestiti. Sono state stimate sovvenzioni a favore dell’Italia per circa 82 miliardi da ricevere in un periodo che terminerà tra sei anni e che verranno sottoposte a determinate condizioni di erogabilità come spiegato in seguito.
Occupiamoci prima degli aspetti contabili che caratterizzano l’ammontare delle sovvenzioni che sarebbero state individuate a favore dell’Italia. A fronte di entrate spalmate su un arco temporale medio fino al 2026, il beneficio netto che avremo sarà determinato dalla quota di bilancio a carico del nostro Paese data dall’incidenza del Reddito Nazionale Lodo, ossia dal 12,80% sull’intero importo stanziato di 390 miliardi. Il beneficio netto totale pertanto risulterebbe, alla fine del settimo anno, pari complessivamente a 32 miliardi, e cioè il 12,80% di 390 miliardi, e non di 82 miliardi. A riguardo ricordiamo che il bilancio comunitario di previsione, di imminente approvazione, ha una durata pluriennale 2021 – 2027.
Vale la pena soffermarsi per fare una riflessione approfondita sulla nota posizione dell’Italia sul bilancio europeo quale contributore netto. Il nostro Paese versa annualmente circa 15 miliardi e ne riceve circa 10 sotto forma di finanziamenti pubblici, partecipando così a beneficio di tutti gli altri Paesi comunitari con un esborso netto di circa 5 miliardi. Pensate che l’Olanda, sulla base del proprio PIL, versa annualmente in tutto 5 miliardi. La nostra contribuzione netta annuale quindi, fa sì che alla fine del settimo anno il contributo netto italiano a favore dell’UE sarà di 35 miliardi. Secondo questo ragionamento quindi con il Recovery Fund, ci rimetteremmo ben 3 miliardi. Ma non è tutto perché i paesi cosiddetti frugali (Germania, Olanda, Austria, Danimarca e Svezia) nell’ambito delle procedure di approvazione del Recovery Fund, hanno ottenuto di poter beneficiare dei “rebates”, veri e propri sconti che sono riconosciuti annualmente per cinque anni, a ciascuno dei suddetti Paesi, sulla contribuzione dovuta sul bilancio comunitario. In pratica verrà a mancare sull’ammontare dei versamenti dei Paesi membri, una cifra complessiva annuale di 322 milioni che verserà in meno la Danimarca, 1.921 milioni che verserà in meno l’Olanda, 565 milioni per l’Austria, 1.069 milioni per la Svezia e 3,67 miliardi per la Germania. Minori versamenti annuali che graveranno su tutti i rimanenti 22 Paesi, in proporzione al loro PIL, ai quali si sommano le minori entrate causate dalla Brexit.
Ricordiamo che l’Italia è il terzo contribuente netto. Sulla base di un mero calcolo di costi e benefici parrebbe dubbio che i benefici prevalgano nell’economia generale della contabilità europea. Ciò peggiorato dal fatto che le concessioni finanziarie sotto il cappello del Recovery Fund, sono sottoposte a una serie di condizioni che graveranno sulle politiche economiche dei singoli Stati beneficiari.
Le “raccomandazioni specifiche” rivolte ai Paesi che si indebiteranno nell’ambito del Recovery Fund sono: riduzione del debito, adeguamento delle rendite catastali, ripensamento della spesa previdenziale, revisione della spesa pubblica. Tali raccomandazioni diventano vere e proprie condizioni dato che è stato stabilito che ciascun Stato membro richiedente dovrà presentare entro ottobre 2020 il piano di investimenti, nei settori che la stessa UE ha indicato e che tali piani sono soggetti all’ approvazione del Consiglio Europeo a maggioranza qualificata su proposta della Commissione.
Inoltre, gli esborsi effettuati per tranche, una volta che il singolo Paese abbia avviato le riforme dovute, possono essere assoggettati all’opinione del Comitato Economico e Finanziario, qualora lo richiedesse la Commissione, quindi le valutazioni e le restrizioni sono di emanazione puramente tecnica o tecnocratica. Inoltre, se un singolo Paese non è convinto della meritevolezza dell’esborso a causa di qualche riforma o scelta politica che non ritiene adeguata, può richiedere la sospensione affinché lo decida il Consiglio Europeo, che è un organo politico che deve votare all’unanimità. Tuttavia la decisione finale spetterà sempre alla Commissione UE che decide senza diritti di veto. Tutte queste condizioni, e altre che dovranno ancora essere messe in chiaro, sono il frutto delle lunghe giornate di trattative a Bruxelles che hanno visto confrontarsi i Paesi del sud Europa con i Paesi frugali che, mi pare, sono quelli che hanno ottenuto molto di più e che hanno imposto l’introduzione di vincoli tecnici e decisionali tali da esautorare il diritto di ciascuno Stato membro alla conservazione della propria sovranità.
In ultimo non dimentichiamo che la ricerca delle risorse del bilancio comunitario va attuata nell’ambito dei singoli Paesi membri che dovranno mettere in campo nuove tasse, alcune delle quali – come la plastic tax– sono già state autorizzate e verranno introdotte a partire dal prossimo gennaio. Altre fonti di provvista dovranno certamente emergere a breve e attingeranno alla fiscalità da introdurre su scala europea imposta dagli organi comunitari: non si scappa, arriveranno altre tasse!
Il rimborso dei 750 miliardi di euro dovrà necessariamente passare per questi specifici canali perché sono quelli che garantiscono il rimborso degli euro bond che verranno collocati sul mercato dei capitali per dare ossigeno al Recovery Fund ma che vedranno nella fiscalità europea i mezzi di rimborso. Con l’introduzione di questi principi e regole l’UE diventa una vera e propria entità “sovrana” che fa ricorso al mercato per reperire la liquidità ed emana autonomamente norme fiscali a valenza generale. Tutto ciò in cambio di una graduale ma inevitabile perdita di autonomia decisionale dei singoli Stati membri, un futuro prossimo al quale non siamo preparati e che non vogliamo accettare.
Ancora una volta i principi democratici garantiti dalla nostra Costituzione, sono stati disattesi e sono stati decisi da “rappresentanti del popolo ai quali non è stato conferito alcun potere di rappresentanza da parte di quest’ultimo. E ciò nel totale silenzio delle istituzioni il cui principale compito, totalmente disatteso, è quello di tutelare i diritti acquisiti dal popolo di una nazione democratica ancora viva.
Che cosa risponderemo ai nostri figli e nipoti quando ci chiederanno perché non abbiamo difeso la nostra libertà come fecero i nostri padri e i nostri nonni per noi?