Clara Pirani ci guarda ancora da Auschwitz

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Durante gli anni della Repubblica Sociale Italiana, in Lombardia come in tutto il Nord-Italia, la borghesia industriale e le istituzioni statali furono compattamente prone al fascismo fino alla fine. Infatti, nessuno tra esse mosse un dito per aiutare la maestra ebrea Clara Pirani quando fu incarcerata a San Vittore prima di essere tradotta nel campo di prigionia di Fossoli e poi in quello di sterminio in Germania

– Enzo Ciaraffa –

Da un lato devo preliminarmente confessare che non ho mai creduto molto all’efficacia mnemonica delle cosiddette “pietre d’inciampo” con le quali s’intende ricordare le vittime delle deportazioni, forse perché ritengo più pedagogico e penetrante spiegare ai giovani, in qualunque sede, che cosa accadde in Europa e nel mondo durante il periodo 1940 – 1945 a opera del nazifascismo. Dall’altro lato, non voglio esimermi dall’ammettere che mi sono imbattuto nella maestra ebrea Clara Pirani uccisa ad Auschwitz, inciampando proprio nella pietra d’inciampo collocata nell’angolo di un marciapiede posto tra via del popolo e via Palestro in Gallarate. Non chiedetemi il perché, ma da quel momento ho sentito forte il desiderio di fare delle ricerche sulla maestra andando a documentarmi su un’introvabile copia del libro “La giustizia negata”, scritto dalle figlie Giuliana, Marisa, Gabriella e pubblicato nel 2005 dalla Arterigere – EsseZeta di Varese.

Ebbene, nonostante il libro scritto dalle figlie, sia a Gallarate che a Varese, la maestra Pirani è stata poco ricordata negli anni che vanno dal dopoguerra a oggi, anzi, se non fosse stato per qualche media locale o associazione “disallineata”, forse non se ne sarebbe parlato per niente. La ragione di ciò è spiegabile col fatto che nessun sistema è incline a tirar fuori dall’armadio gli scheletri delle sue malefatte o, come minimo, della sua ignavia. Come vedremo più avanti, infatti, durante gli anni della Repubblica Sociale Italiana, in Lombardia come in tutto il Nord-Italia del resto, la borghesia, l’industria e la pubblica amministrazione furono proni al nazifascismo, anche se qualcuno appartenente a quella strana nomenklatura pagò di persona tale condiscendenza come, per fare un esempio, Ada Provenzali, la moglie ebrea del ragioniere Paolo Bianchi, direttore del Calzaturificio di Varese che, prima a Fossoli e poi ad Auschwitz, venne internata assieme a Clara Pirani. D’altronde, è esemplificativo il fatto che in Lombardia a contrastare fascisti e nazisti sul terreno era stato sempre il ceto proletario e che per aiutare la nostra maestra, eccetto il marito, nessuno mosse un dito allorché fu incarcerata a San Vittore e a Fossoli. Nessuno se non una povera guardia carceraria, Andrea Schivo che, per i suoi slanci umanitari, finirà nel lager di Flossenburg, per morirvi poi di stenti. Ma partiamo dall’inizio della tragica vicenda.

Era il venerdì del 12 maggio del 1944 e il mondo era più che mai squassato dalla II Guerra Mondiale che, tra i tanti disastri, dopo l’8 settembre del 1943 aveva determinato la divisione dell’Italia in due: il Regno del Sud protetto dagli Alleati, con capitale provvisoria Salerno fino a giugno del 1944, e la Repubblica Sociale a Nord protetta dai nazisti con capitale Gargnano sul Garda, mentre i bombardamenti alleati si accanivano su Milano e sulle altre località italiane con un devastante crescendo. Eppure, nelle prime ore di quel mattino di ottant’anni fa, a Gallarate, tre agenti di polizia provenienti da via Palestro girarono con fare circospetto in Via del Popolo e si fermarono al civico numero 1. Era un piccolo palazzotto dove entrarono e suonarono alla porta dell’alloggio che ospitava la famiglia del professore Francesco Cardosi, preside del Civico Ginnasio Pareggiato locale, che praticamente si trovava dall’altro lato della strada, nell’edificio dove oggi c’è l’Istituto Comprensivo “Dante”. Per quale ragione i poliziotti si recarono a casa del preside?

Per eseguire l’ordine della Questura di Varese di arrestare la moglie, la quarantacinquenne maestra elementare milanese Clara Pirani e, in un primo momento, le figlie Giuliana, Marisa e Gabriella, che era nata a Gallarate appena tre anni prima. Per fortuna, dopo l’accorato intervento del giorno prima di papà Cardosi presso il commissario di polizia di Gallarate, Antonio Santoro, e presso il commissario prefettizio sedente in Comune, Angelantonio Bianchi, le tre ragazze vennero risparmiate per un pelo dall’arresto. Ma quale reato avevano commesso la signora Pirani – Cardosi e le sue tre figlie? Quello di essere la prima una “ebrea pura”, cioè nata da genitori ebrei, e “ebree miste” le figlie, cioè nate dall’unione tra un’ebrea e un ariano puro, come se dopo duemila anni di passaggi continui di popoli e di civiltà per la nostra penisola potesse esistere il fenotipo di un’incontaminata razza ariana.

A questo punto ci domandiamo se riusciremo mai a trasmettere al lettore di oggi l’orrore di ciò che avvenne la mattina del 12 maggio del 1944 in quella casa di Via del popolo dove, oltre alla loro mamma, la Questura di Varese voleva mandare in un campo di concentramento anche le sue bambine! E, al sommo della crudeltà, tutto questo stava avvenendo sotto gli occhi di un marito e padre costretto ad assistere, impotente, allo scempio che si stava facendo della sua famiglia, per evitare che gesti inconsulti da parte sua potessero innescare anche la deportazione delle figlie appena evitata.

Erano uomini normali coloro che si stavano rendendo colpevoli di tali abomini, come il questore di Varese Luigi Duca, che firmò l’ordine di arresto e di traduzione di Clara Pirani presso il carcere di San Vittore? Costoro, come tanti altri collaborazionisti, avevano una moglie, dei figli, dei genitori, che magari baciavano teneramente prima di uscire al mattino o rientrando a casa la sera? E come riuscivano a guardarli negli occhi dopo aver privato tre ragazze della loro madre, mandata a morire in un campo di concentramento? Come facevano a guardarsi nello specchio la mattina mentre si radevano?

Per capire perché quella follia, che stava travolgendo, tra le tante, la famiglia del professor Cardosi, riprese slancio sei anni dopo che il regime fascista ebbe varato le leggi razziali, bisogna fare un cenno a quanto accadde in Italia dopo il 25 luglio 1943, quando Mussolini fu fatto arrestare dal re dopo che il Gran Consiglio del Fascismo lo aveva esautorato e rinchiuso in un albergo sul Gran Sasso, da dove fu poi liberato da un colpo di mano nazista il 12 settembre successivo. Il giorno dopo la liberazione di Mussolini, in previsione della nascita della Repubblica Sociale in predicato, a Verona i fascisti irriducibili ne redassero il manifesto programmatico che, all’articolo 7, andava di molto oltre le leggi razziali varate nel periodo 1938 – 1940 perché vi stabilì che «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». Come dire che gli ebrei non erano soltanto degli inferiori da escludere dalla vita culturale, produttiva e sociale del Paese, com’era stato legiferato nel 1938, ma stando al cosiddetto manifesto di Verona essi erano addirittura dei pericolosi nemici dello Stato e perciò da combattere con ogni mezzo.

Fu l’inizio di una vera e propria caccia agli ebrei nel Nord-Italia, anche di quelli che, come Clara Pirani, avrebbero dovuto essere al riparo da ogni persecuzione perché godenti dello status di ebrei arianizzati in virtù della Legge numero 1024 del 13 luglio 1939, più volte richiamata nelle circolari provenienti da Roma, non ancora liberata dalle armate alleate. Una di quelle circolari arrivata al Prefetto della provincia di Varese, Mario Bassi, il 7 marzo del 1944 ribadiva: «…confermasi che ebrei puri tanto italiani che stranieri debbono essere inviati ai campi di concentramento fatta eccezione per vecchi oltre settanta anni et malati gravi, rimangono esclusi da tale provvedimento ebrei di famiglia mista, compresi ebrei stranieri coniugati con nazionali ariani…».

La circolare sembrava fatta apposta per la situazione della maestra Clara. Ma allora perché la stavano strappando alla sua famiglia? Il fatto era che i tedeschi, ormai i veri padroni del Nord-Italia produttivo, se ne impipavano di tali sottigliezze legislative: a loro interessavano gli ebrei da inviare nei campi di concentramento, per lavorare come schiavi o per esservi eliminati. Spesso l’invio di ebrei in tali campi era motivato dall’ingordigia degli aguzzini periferici delle SS. Basta leggere che cosa scrisse, l’8 maggio del 1944, il famigerato capo della sezione lombarda dell’ufficio IV/B4, il maresciallo capo delle SS Otto Koch, al questore di Varese che ormai prendeva ordini anche da un semplice sottufficiale delle SS: «Arrestare tutti gli ebrei di qualsiasi Stato, svizzeri, turchi, ungheresi, anche se conviventi con ariani. Tratti oggi o anche di notte Carcere San Vittore di Milano. Denaro, gioielli, vestiti e biancheria personale. Gli appartamenti vanno sigillati. La roba minuta in un locale».

Purtroppo, per facilitare il compito degli aguzzini tedeschi era intervenuto, tempestivo e servile, un elenco aggiornato di quarantotto nuclei familiari del Varesotto forniti dalla Prefettura di Varese al comando delle SS, che assieme alla Gestapo si erano installati nell’Albergo Regina di Milano. Si trattava di persone che erano state escluse dalla deportazione perché costituenti “famiglie miste” come quella di Clara Pirani e del professor Cardosi. In quel momento il responsabile della polizia e dei servizi di sicurezza tedeschi per la Lombardia era l’hauptsturmfuhrer-SS (capitano) Theodor Emil Saevecke, il responsabile della strage di piazzale Loreto e, fino al 1945, della deportazione di 700 ebrei italiani, tra cui la maestra di Gallarate. A Varese, invece, in posizione più defilata agiva come comandante militare della piazza il colonnello Karl Vornhem.

Ritornando in quel triste appartamento di via del popolo a Gallarate, la mattina del 12 maggio del 1944, la maestra Clara venne portata via dai tre poliziotti come fosse una pericolosa delinquente, e nella stessa giornata fu consegnata al comando della polizia tedesca, installatosi presso il carcere di San Vittore di Milano, con un’illuminante lettera di accompagnamento, a firma del questore di Varese: «Come da precedenti disposizioni telefoniche del Comando della Polizia Germanica [del carcere di San Vittore – n.d.a.], faccio accompagnare da agenti di quest’ufficio, in codesto carcere giudiziario, le sottonotate persone di razza ebraica: Pirani Clara fu Achille; Vitala Michele di Aronne; Sacerdoti Giuseppe fu Emilio. Prego accusare ricevuta». La ricevuta? Ma erano tre esseri umani e non dei pacchi postali! Ovviamente la ricevuta rilasciata dai tedeschi fu all’altezza di cotanta richiesta: «Si conferma che 3 ebrei sono portati qui dalla Questura di Varese». In quel preciso momento partì l’orologio della morte per la maestra Clara Pirani: le rimanevano soltanto ottantasei giorni di vita.

Dal carcere di San Vittore, il 9 giugno 1944, essa fu trasferita all’ex campo per prigionieri di guerra di Fossoli-Carpi in provincia di Modena e, pochi giorni dopo, scrisse al marito per avere notizie delle figlie e per rassicurarlo sulle proprie condizioni di salute. Per quanto cercasse di nasconderlo, le corrispondenze di Clara col marito erano permeate di profonda tristezza e, paradossalmente, anche di fiducia nell’avvenire, come traspare dall’ultima lettera che il 2 agosto riuscì a spedire alla famiglia durante una sosta a Verona del convoglio che stava per condurla ad Auschwitz: «Miei carissimi, due righe in fretta da Verona. Ripartiamo oggi stesso per la nuova destinazione, forse ci fermeremo qualche tempo a Bolzano, ma è più probabile che ci portino subito oltre confine per un campo di lavoro. Non so se potrò scrivervi ancora ma state tranquilli la prova è dura eppure ho fiducia di superarla. La vostra tranquillità e la certezza che state bene mi daranno la forza di superare i disagi. Pensatemi come io vi penso ma non lasciatevi abbattere, mi raccomando. Voglio ritrovarvi bene. Vi stringo sul cuore». Sì, perché Clara era speranzosa di ritornare un giorno non lontano dalle sue adorate figlie.

E invece, la famiglia l’aveva persa per sempre, perché sei giorni dopo sarebbe stata uccisa nella camera a gas di Auschwitz, agnello sacrificale dell’ignominia nazista e, duole doverlo ammettere, della vigliaccheria di una classe dirigente che non fu all’altezza del suo ruolo nè prima, nè dopo la caduta di Mussolini e che, purtroppo, avrebbe avuto in mano le redini del potere decisionale ancora per molti anni dopo la caduta definitiva del regime fascista. Basti pensare che fino al 1964 in Italia opereranno prefetti che erano stati nominati dal duce prima della guerra.

Infatti, una volta finita la guerra, della maestra Clara Pirani quasi non si parlò più e la sua famiglia non ebbe la giustizia che meritava, né sotto il profilo penale, né sotto quello amministrativo, perché i diversi gradi della burocrazia e della Magistratura, che erano tutti di nomina fascista, trovarono mille cavilli per non assegnare una pensione di reversibilità alle figlie e, soprattutto, fecero sì che la facessero franca coloro che avevano spedito la loro dolce mamma alla camera a gas. Ciò perché la condanna dei colpevoli, dei protagonisti del vecchio sistema di potere, si sarebbe riverberata anche su di loro che di quel sistema avevano fatto parte.

Fu la solita storia del cittadino vessato e oppresso che lotta vanamente per ottenere giustizia da un sistema che non può fornirgliela perché è stato egli stesso il co-autore di quelle ingiustizie. È veramente devastante il pensiero con il quale le tre figlie della maestra Clara Pirani conchiudono il già citato libro “La giustizia negata”: «Noi siamo sempre rimaste al di sotto dei giochi della politica e degli imprevisti della storia, in quella zona inferiore, destinate a soccombere. Siamo rimaste ostinatamente sole, in quell’aula di giustizia ad attendere l’esito di una lotta ineguale».

Tu, cara maestra Pirani e dolce mamma delle tue figlie, dalle inarrivabili altezze dove ti trovi ormai da 81 anni, avrai certamente perdonato coloro che ti consegnarono al boia nazista, invece noi sulla terra non possiamo farlo perché, anche se le tue ceneri andarono disperse assieme a quelle di altri milioni di vittime innocenti, abbiamo il dovere di non dimenticare, di imprimerci nella mente lo sguardo dolente e deluso con il quale ti ha rappresentato nella copertina la buona matita di Donato Tesauro.

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