Cinquantanove anni fa il Concilio di due papi

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Secondo il filosofo francese Jean Madiran, nel 1962 in Francia sarebbe avvenuto un incontro segreto tra il cardinale Eugéne Tisserant, in rappresentanza di papa Giovanni XXIII e l’arcivescovo ortodosso Nicodemo Rotov, in rappresentanza del patriarcato ortodosso russo, in realtà del governo sovietico, per ottenere che l’imminente Concilio Vaticano II si astenesse dal condannare il comunismo come uno dei mali del secolo, in cambio della partecipazione dei prelati provenienti da quel patriarcato 

– Enzo Ciaraffa –

Tra qualche giorno, esattamente l’11 ottobre, ricorrerà il giorno in cui, cinquantanove anni fa, venne aperto il 21° Concilio della Chiesa di Roma, più noto come il Concilio Ecumenico Vaticano II che durò dal 1962 al 1965 e che non fu chiuso dallo stesso papa che lo aveva aperto. Ebbene, ci piace ricordare l’avvenimento col commentare “L’accordo di Metz”, un saggio in cui il filosofo cattolico francese Jean Madiran sostiene che, ad agosto del 1962, nella cittadina francese di Metz, accadde qualcosa che avrebbe condizionato politicamente il Concilio Ecumenico che stava per aprirsi. Secondo il filosofo, infatti, a Metz sarebbe avvenuto un incontro segreto tra il cardinale Eugéne Tisserant, in rappresentanza di papa Giovanni XXIII, e l’arcivescovo ortodosso Nicodemo Rotov, per conto del patriarcato ortodosso russo, in realtà del governo Sovietico. In breve sintesi, Madiran che è venuto a mancare nel 2013, sostiene che durante quell’incontro fu stabilito un accordo che ebbe per oggetto l’impegno del papa affinché il Concilio si astenesse dal condannare il comunismo (che Pio XII aveva addirittura scomunicato) come uno dei mali del secolo, in cambio della partecipazione alle assise della Chiesa di prelati provenienti dal patriarcato ortodosso. Che papa Giovanni tenesse molto al reale ecumenismo della assise conciliare – la prima dall’Unità d’Italia – è risaputo ma che per questo fosse disposto a imbavagliare il “suo” Concilio ne dubitiamo fortemente.              

Nonostante le non poche voci dissonanti dalla nostra, incliniamo a ritenere inverosimili tali congetture perché durante la seconda sessione di quel Concilio si parlò, eccome, di comunismo. A farlo fu proprio un papa, Paolo VI nel frattempo succeduto a Roncalli, con l’enciclica Ecclesiam Suam datata 6 agosto 1964, che condannava il comunismo specialmente laddove richiamò più volte l’enciclica Divini Redemptoris con la quale nel 1937 papa Pio XI aveva tracciato un confine netto tra cattolicesimo e bolscevismo ateo.

Ai tempi di Paolo VI, da tutti auspicata era scoppiata finalmente la “distensione” tra i due blocchi militari che reggevano le sorti del mondo e, pertanto, i toni della Chiesa non potevano essere più da crociata ma curiali come, d’altronde, erano (e sono) sempre stati in condizioni normali, ma non per questo accomodanti: «Talvolta il desiderio apostolico d’avvicinare ambienti profani o di farsi accogliere dagli animi moderni, da quelli giovani specialmente, si traduce in una rinuncia alle forme della vita cristiana…». E, per ultimo, si riservò la bastonata per i preti cosiddetti progressisti, quelli che confondevano il sacerdozio con la militanza politica: «…non è forse vero che spesso qualche zelante religioso guidato dalla buona intenzione di penetrare nelle masse popolari o in ceti particolari cerca di confondersi con essi invece di distinguersi, rinunciando con inutile mimetismo all’efficacia genuina del suo apostolato?».

Di là di tutto questo, de “L’accordo di Metz”, di cui Madiran ammise di non conoscere i contenuti, non v’è una sola prova, se non articoli tratti da giornali politici dell’epoca e alcune dichiarazioni dello stesso arcivescovo Nicodemo molto liberamente interpretate dalla stampa conservatrice. Riteniamo che l’inclinazione a costruire una verità su congetture e deduzioni – oltre che molto scorretta – sia quasi sempre antistorica, come troviamo intollerabile lo stravolgimento del ruolo avuto nella vicenda da figure importanti come papa Giovanni XXIII, che non fu per niente uno sprovveduto in balia della Curia romana e per di più simpatizzante del comunismo.

All’epoca degli accadimenti lo scrivente era un adolescente sognatore cui, evidentemente, non interessava proprio niente né della politica, né delle vicende della Chiesa, e tuttavia ricorda molto bene l’attenzione con cui suo padre seguiva le vicende di papa Giovanni, del Concilio in corso e anche lui, come Madiran, sosteneva che la Curia romana, storicamente tradizionalista, non amasse un papa innovatore come Roncalli. È stato, dunque, anche per questa ragione personale che, pungolati dalle argomentazioni del filosofo francese e da affettuose reminiscenze, abbiamo sentito la necessità di andare a documentarci sul comportamento “politico” di Giovanni XXIII per vedere se da un tale vaglio potesse emergere un elemento, o perfino un indizio, che rendesse almeno verosimile il patto segreto che sarebbe avvenuto tra il Vaticano e il Cremlino.

Il fatto è che appena iniziata la ricerca è subito venuto fuori che papa Roncalli fu “vittima” della sua stessa vita, delle sue origini contadine, di una personalità semplice e concreta, del fatto di essere stato in gioventù segretario del vescovo di Bergamo, Giacomo Radini Tedeschi, un prelato molto vicino alle rivendicazioni operaie dei primi del Novecento e perciò definito un socialista. Ma anche quando fu egli stesso vescovo e cardinale, Roncalli non ebbe paura né delle parole, né di scegliere posizioni ritenute politicamente scorrette ma, comunque, sempre in coerenza col suo magistero. Ad esempio, in veste di nunzio apostolico a Parigi e di osservatore della Santa Sede presso l’Unesco non esitò a elogiare i rappresentanti di altre religioni storicamente nemiche del cristianesimo: «Ho constatato che fra i settanta diplomatici, di cui solo trenta cattolici, i più sensibili alle parole del nunzio su questo punto di ispirazione religiosa, vengono ad essere gli ambasciatori nei quali prevale una tradizione religiosa buddista, confuciana e maomettana». E con la Francia che in quel momento iniziava a reprimere nel sangue la guerra di liberazione degli algerini (maomettani), con i comunisti cinesi (confuciani) che avevano da poco assunto il potere, si capisce che ci volle la forza di un’insopprimibile onestà intellettuale per fare tali affermazioni. L’episodio che, però, etichettò per sempre Giovanni XXIII come di sinistra avvenne a luglio del 1962, quando in veste di papa si rifiutò di concedere udienza ai vertici di Confindustria, sospettando che essi volessero incontrarlo per tentare di bloccare, in qualche maniera, la nazionalizzazione dell’energia elettrica che era la base sulla quale si stava costituendo il primo governo di centrosinistra in Italia. L’anno dopo, invece, ricevette in udienza privata addirittura il genero e la figlia del premier comunista Nikita Kruscev. A questo punto tutto lascerebbe pensare che Roncalli fosse davvero un papa di sinistra e che in qualche modo avesse ragione il compianto Madiran. Fu veramente così?

Non siamo per niente persuasi che papa Roncalli sia stato un papa di sinistra, e il nostro convincimento non è un atto di fede perché si basa su fatti, episodi e dati verificabili, alla portata di tutti quelli che non abbiano delle tesi precostituite da dover dimostrare ad ogni costo, anche perché basandosi soltanto su delle supposizioni si potrebbe ragionevolmente sostenere anche il contrario, cioè che Roncalli fosse di destra.

Infatti, come patriarca di Venezia, nel celebrare il venticinquesimo anniversario dei Patti lateranensi, l’11 febbraio del 1954 – appena nove anni dopo la guerra – il cardinale Roncalli fece riferimento al principale artefice di quel patto, Benito Mussolini, definendolo con sentimenti di accorata e rispettosa pietà semplicemente un uomo che è «…diventato motivo di grande tristezza per il popolo italiano». O quando, in occasione delle elezioni comunali tenutesi il 1956 nella città lagunare, avvertì i fedeli che «…il cattolico non può assolutamente dare il suo voto a quelle liste che rappresentano l’opposizione netta e decisa alla dottrina cristiana […] Quelle dei comunisti e di quella parte di socialisti, ben qualificata in Italia, che gli tiene bordone». In tali parole dovremmo forse vedere un riconoscimento della politica fascista o l’esortazione a votare esclusivamente per la Democrazia cristiana del tempo? O non, invece, il coraggioso rispetto per la storia e un indirizzo ai fedeli diocesani giacché in quel preciso momento storico i comunisti e i socialisti erano i nemici mortali della Chiesa e dell’Occidente?

Non escludiamo che vi possano essere stati contatti e incontri tra emissari del Cremlino e del Vaticano, e ciò non certo per condizionare l’assise conciliare che si sarebbe aperta da lì a qualche mese ma, caso mai, per un motivo che i fautori del “patto scellerato” di Metz dimenticano. Stava per scoppiare la più grave crisi politica e militare del dopoguerra tra i due blocchi che reggevano le sorti del mondo, gli Usa e l’Urss, una crisi che si acuirà proprio in concomitanza dell’apertura del Concilio portando il mondo sull’orlo di una guerra nucleare che se non scoppierà sarà anche per merito dei “contatti” del papa. La verità era che Giovanni XXIII non chiudeva la porta del dialogo a nessuno giacché era molto inquieto per le sorti della pace nel mondo e i fatti di Cuba dimostrarono quando fosse fondata tale inquietudine. Esattamente quattro giorni dopo l’apertura del Concilio, gli americani attuarono il blocco navale dell’Isola di Cuba (che si trova ad appena 90 miglia dalle loro coste) dove i sovietici avevano installato in segreto rampe di missili a testata nucleare. La situazione giunse al punto in cui o i sovietici avrebbero smantellato le rampe, o l’America avrebbe occupato Cuba e sarebbe stata la III Guerra Mondiale. L’umanità stette per giorni col fiato sospeso temendo una catastrofe nucleare che, per fortuna, non vi fu perché i russi ritirarono i missili e gli americani tolsero il blocco navale.

Siccome è da pochi anni che gli archivi della Casa Bianca hanno reso noti i telegrammi con i quali l’ambasciatore a Roma informava il presidente Kennedy degli assidui contatti del papa col leader sovietico, Kruscev, per giungere alla soluzione pacifica della crisi di Cuba, non tutti conoscono l’importante parte che vi ebbe papa Giovanni. Che, poi, egli realmente si fidasse di Kruscev al punto d’intavolare – come ipotizzato da Madiran – delle trattative segrete con lui è indimostrato, anzi, si dimostra il contrario se andiamo a leggere ciò egli che annotò nel suo diario il 26 dicembre del 1962: «…questo Kroucheff, o Nikita Khruschecheff, come lui si firma, non ci prepara forse delle sorprese?». Si fidava talmente poco dei comunisti che, per ricevere in un’udienza, dal grande significato simbolico per la Russia comunista, la figlia e il genero del premier Nikita Kruscev il 7 marzo del 1963, Roncalli pretese come gesto di buona volontà la preventiva liberazione da un gulag dell’arcivescovo greco-cattolico ucraino Josif Slipyi e soltanto dopo l’arrivo di questi a Roma sano e salvo ricevette Rada Kruscev e Alexis Adjubei. Quella di Giovanni XXIII fu sicuramente una politica di apertura non al comunismo ma, semmai, ai cristiani di fede comunista perché il giudizio negativo della Chiesa sulle politiche ostili al cristianesimo e, quindi, sul comunismo come ideologia, non era per niente cambiato.

Non serve nascondere che la Chiesa di quegli anni aveva di sé ancora una concezione principesca/rinascimentale e, perciò, molti dei suoi prelati di vertice avversarono l’umile contadino di Sotto il Monte che prometteva di immergerli in un lavacro di umiltà e di ricerca della carità operante. I “nemici” di Roncalli furono più numerosi di quanto non si pensi oggi e i loro tentativi di boicottarne le aperture furono tanti, anche da parte di quell’Osservatore Romano che, allora come oggi, è la voce dell’establishment vaticano più che del papa. Fu la “Chiesa aperta” di Giovanni XXIII e non quella dei conservatori, però, che diede il via all’Ostpolitik, che bucò la “cortina di ferro” perché, dopo la visita dei congiunti di Kruscev s’instaurarono, progressivamente, accettabili rapporti diplomatici tra la Chiesa e gli altri Paesi dell’orbe comunista. Incominciava a prendere forma sul terreno lo spirito dell’ultima Enciclica, la Pacem in terris, che Giovanni XXIII firmò pochi giorni prima della sua morte avvenuta il 3 giugno del 1963.

Quell’Enciclica era così calata nel secolo che lo scrivente, scherzando ma neppure troppo, l’ha spesso definita la più inaspettata competitrice della nostra Costituzione e per verificare tale asserto basta andare a leggere i titoli di alcuni dei suoi paragrafi: «Soggetti di diritti e di doveri – Struttura e funzionamento dei poteri pubblici – Dovere di promuovere i diritti della persona – Nella libertà – Dovere di partecipare alla vita pubblica – Interdipendenza tra le comunità politiche – Il bene universale e i diritti della persona – Poteri pubblici istituiti di comune accordo e non imposti con la forza  – L’ascesa delle comunità politiche in fase di sviluppo economico». Come dire, se ci è consentita un’acre riflessione, che se le forze politiche che sostengono di richiamarsi al cristianesimo avessero fatto propri, nei fatti più che nelle parole, alcuni principi contenuti nella Pacem in terris, forse il nostro Paese non si troverebbe oggi a dover affrontare, tutti insieme, quei problemi che sono stati elusi per anni. Ecco, un papa di tal fatta poteva intavolare un dialogo con i comunisti (non con il comunismo…) e con chiunque altro lo avesse aiutato a costruire la pace universale, ma da questo ad accusare, come fa Madiran, lui e il Concilio Vaticano II di aver ridotto «…il potere del magistero della Chiesa, favorendo il lassismo generalizzato» ne corre. La conclusione alla quale siamo giunti, pertanto, è che Madiran, come il suo conterraneo, l’arcivescovo Lefebvre, era un cattolico tradizionalista e, quindi, un fiero avversario delle innovazioni introdotte dal Vaticano II e certamente non un estimatore di chi quel Concilio volle. Giovanni XXIII, in realtà, non fu né di destra, né di sinistra ma semplicemente un papa che sentì su di sé il peso del destino di un mondo che stava rapidamente cambiando e, come aveva profetizzato Malachia, fu il “Pastor et nauta” che ci voleva per una Chiesa che faceva fatica a venir fuori dai marosi ideologici del Novecento, un secolo sicuramente procelloso.

La differenza corrente tra il papa del Concilio Vaticano II e Bergoglio? Essenzialmente una secondo noi: il primo indicò la rotta morale ad un secolo morente ma dall’animo martoriato e con tanta voglia di redimersi, il secondo invece ha lanciato la Chiesa all’inseguimento di un secolo senza anima e con tanta voglia di autodistruzione.

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