La premier Giorgia Meloni, invitando gli elettori a mettere semplicemente il suo nome di battesimo sulla scheda elettorale delle prossime europee, ha indetto un referendum sul governo e sulla sua persona ma, di converso, anche sul radicalismo della Sinistra e sulla segretaria del PD Elly Schlein
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Come abbiamo più volte ribadito, pur ritendendolo uno dei più grandi giornalisti italiani del Novecento, non abbiamo mai simpatizzato per la buonanima di Eugenio Scalfari a causa del suo essere di parte e col vizietto – lui ex collaboratore di riviste fasciste e poi comunista – di voler somministrare pillole di morale antifascista agli altri. Oggi, a distanza di qualche annetto, dobbiamo però ammettere che il defunto fondatore de la Repubblica aveva ragione e torto allo stesso tempo quando, durante il governo gialloverde, definì “Ministro del Tweet” l’allora reggitore degli interni, Matteo Salvini. Scalfari aveva ragione perché è vero che il segretario della Lega ha la propensione a ridurre immani questioni politiche e sociali ai minimi termini, per poi ridurle ulteriormente in un Tweet; aveva anche torto, però, perché ormai il vezzo di twittare invece di articolare è di tutta la classe politica, di destra e di sinistra.
Bisogna dire che fino a un certo punto il metodo ha funzionato perché, per un popolo provincialotto e democraticamente immaturo, questo tipo di comunicazione superficiale era l’ideale, dal momento che dava l’illusione di essere particolarmente intelligenti: riuscivamo a fare gli esercizi civici non con approfonditi studi, con arricchenti discussioni o con ponderate analisi politiche. Bastava un clic sulla tastiera del computer o dello smartphone per farci sentire tutti dei novelli Metternich, fino al punto che con i clic gli elettori grillini hanno scelto anche la classe politica e dirigente di questo Paese, con i risultati disastrosi che ben conosciamo.
Sennonché sono sopraggiunte tre guerre a scuotere questo circuito perverso, come la pandemia da Covid-19, l’aggressione militare russa all’Ucraina e i contrapposti massacri nella striscia di Gaza, sempreché la Cina se ne stia buona a Taiwan e non apra un altro fronte. Ma per vincere le guerre ci vogliono condottieri capaci e allora, dopo i disastri combinati da Giuseppe Conte e da chi c’era stato prima di lui, il presidente della Repubblica, con una procedura non proprio ortodossa, impose al Parlamento Mario Draghi come premier il che, stante la sua caratura professionale, a noi non dispiacque del tutto, nonostante il fatto che l’ex presidente della Bce fosse l’ennesimo capo del governo uscito dal cilindro del Quirinale e non da una scelta degli elettori.
Poi, eletto dalla maggioranza degli italiani, è arrivato il governo di destra-centro con a capo Giorgia Meloni e le cose sono peggiorate, non perché il governo stia facendo male, anzi sta facendo bene nonostante la congiuntura sfavorevole, ma perché ha rotto quella catena di Sant’Antonio (Giorgia Meloni la definì amichettismo) che negli ultimi settant’anni ha tenuto incollati la Sinistra, l’informazione, i partiti, i rettorati universitari, la Cgil, la Confindustria, la magistratura politicizzata, il Csm, larghi settori della gerarchia vaticana e perfino l’inquilino del Quirinale che dovrebbe essere terzo per dettame costituzionale.
Ebbene, fin dal primo giorno del suo insediamento, il governo in carica ha avuto contro quest’armata così potente con l’obiettivo di farlo cadere e restaurare l’ancien régime, possibilmente senza passare per le urne. Infatti, da quel momento ogni scusa è stata buona per attaccare l’esecutivo, quasi sempre in modo strumentale: le inchieste e gli arresti a orologeria della Magistratura contro esponenti della destra in Liguria, o lamenti infantili come nel caso Patrick Zaki, di Ilaria Salis (entrambi liberati dal governo Meloni…), o mettere a soqquadro le università dove la Sinistra sta dando libero sfogo alle sue antiche pulsioni cripto comuniste e antisemite, con la scusa della guerra nella striscia di Gaza seguita al bestiale eccidio di Hamas dello scorso 7 ottobre. Avvicinandosi il giorno delle elezioni europee, Giorgia Meloni e Elly Schlein si erano dette pronte a confrontarsi nella trasmissione “Porta a porta” di Bruno Vespa, ma il Garante per le comunicazioni, l’Agcom, ha stabilito che il confronto non si può fare come inizialmente pensato perché sarebbe discriminante nei confronti degli altri partiti.
Poco male tutto sommato, perché la Meloni, invitando gli elettori a mettere semplicemente il suo nome di battesimo sulla scheda elettorale il prossimo 8/9 giugno, oltre a essere andata perfino oltre la sintesi del Tweet, ha indetto un referendum sul governo e sulla sua persona ma, di converso, anche sulla sinistra e su Elly Schlein. Sicché, tra una ventina di giorni sapremo che cosa le elezioni europee hanno portato in dote a Giorgia, dopo diciotto mesi di governo nazionale, e alla Sinistra italiana dopo quattordici mesi di radicalismo tardo sessantottino a guida Elly la quale, da quando è arrivata alla guida del PD, sta irresponsabilmente soffiando sul fuoco di ogni protesta giovanile che, prima o poi, produrrà qualche frutto avvelenato com’è accaduto in Slovacchia. Pertanto, un mazziatone elettorale alla Sinistra radicale nelle urne delle europee farebbe senz’altro bene al quiete vivere del nostro Paese e alla prevalente anima moderata dello stesso PD che, in caso di pessimo risultato, manderebbe a casa la segretaria sanculotta che nessuno aveva visto arrivare.
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