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Addio naja, addio giovinezza

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Il mese di C.A.R passò in fretta e, tuttavia, mi restano bene impressi nella memoria la disciplina, il dover fare cose che non avevo mai fatto prima, le giornate passate a marciare sotto il sole cocente e, quando capitava, sotto la pioggia e il vento… ci temprava dicevano. Sta di fatto che quando andai a sparare col fucile al poligono, o quando partecipai al primo alza bandiera sotto la pioggia battente, mi sentii come un atleta delle Olimpiadi: ero sull’attenti mentre il Tricolore saliva lungo il pennone accompagnato dall’Inno di Mameli. Soltanto chi ha fatto il servizio militare di leva, la cosiddetta naja, può capire queste sensazioni uniche e indimenticabili
– * Stefano De Bortoli –

Mi ha molto colpito, nei giorni scorsi, il silenzio delle istituzioni sul rientro dei nostri militari dall’Afghanistan dove pure abbiamo avuto 54 caduti, diversi mutilati e feriti. E parliamo di personale che si era recato in Afghanistan perché ce li aveva inviati il governo legittimo del Paese o, se credete, la Patria. Ed è stato sulla base di queste riflessioni che ho raccolto ben volentieri l’invito di questo blog a parlare della mia vita di militare di leva. Trent’anni fa. Il mio ricordo, nelle intenzioni del direttore, farà da apripista a coloro che vorranno scrivere del loro servizio militare, o della cosiddetta naja, magari aggiungendovi alcune foto.

Per quanto mi riguarda, tutto ebbe inizio in una fredda giornata dell’inverno del 1991 con l’arrivo di una lettera che mi preannunciava il servizio militare di leva nei Carristi e, quindi, la prima assegnazione presso il C.A.R. – Centro Addestramento Reclute della Scuola Truppe Corazzate di Lecce.

I mesi trascorsero e si avvicinava l’ora della partenza e quando, ormai, ero psicologicamente pronto, una nuova lettera mi informò del cambio della prima destinazione che era diventata Como, un C.A.R. di fanteria pura, e non più Lecce. Noi burbacce il motivo di quel cambio repentino ufficialmente non lo conoscemmo mai, anche se circolavano voci (la solita radio naja…) che indicavano nella causa del cambio di destinazione l’arrivo di massicci flussi migratori di albanesi in Puglia, dove le caserme dovettero attrezzarsi per dare ricovero a quella povera gente. In giugno partii …

Il mese di C.A.R passò in fretta e, tuttavia, mi restano bene impressi nella memoria la disciplina, il dover fare cose che non avevo mai fatto prima, anche se sbagliate, le giornate passate a marciare sotto il sole cocente e, quando capitava, sotto la pioggia e il vento… ci temprava dicevano. Sta di fatto che quando andai a sparare col fucile al poligono per la prima volta, o quando partecipai al primo alza bandiera sotto la pioggia battente, mi sentii come un atleta delle Olimpiadi: ero sull’attenti mentre il Tricolore saliva lungo il pennone accompagnata dall’Inno di Mameli. Soltanto chi ha fatto il soldato può capire queste sensazioni uniche e indimenticabili.

Poi arrivò il giorno della cerimonia del giuramento che fu anticipato e breve, tanto anticipato che i miei genitori e i parenti non fecero in tempo ad assistervi. In ogni caso festeggiammo il giorno del mio giuramento alla Patria in un ristorante sul lago di Como e, dopo, con un giro in pedalò tanto per digerire.

Al termine del C.A.R. mi venne comunicata la destinazione operativa e, con grande sorpresa e felicità, mi trovai assegnato al 4° Battaglione Carri di Solbiate Olona: a cinque chilometri da casa mia che abitavo a Lonate Ceppino.

Alcune settimane dopo essere arrivato nella nuova sede, nemmeno il tempo di ambientarmi che mi misero in partenza per Lenta, dove fui aggregato al Reggimento “Cavalleggeri di Lodi”: mi attendevano quaranta giorni di addestramento per apprendere gli incarichi a cui eravamo stati assegnati, chi servente radiofonista, chi pilota e chi cannoniere. Io avevo l’incarico di servente radiofonista, ero in altre parole il soldato che caricava il cannone e curava l’apparato radio del carro armato. Forse perché fu il più duro, ma quello di Lenta è il periodo militare che ricordo con maggiore nostalgia.

Eppure la nostra sistemazione logistica non era da hotel a cinque stelle, in una caserma nei boschi che non aveva niente a che vedere con quella di Solbiate Olona con camere da otto ognuna con i suoi servizi. Non c’era acqua potabile e ci veniva fornita una sola bottiglia al giorno oltre a quella della mensa; niente piatti e bicchieri perché bisognava utilizzare la propria gavetta di dotazione per mangiare. Passavamo molte ore sui carri e in anguste aule, dove regnava un caldo opprimente, per lezioni teoriche sul funzionamento di ogni singola parte del Leopard, delle sue dotazioni e del suo armamento. Durante le lezioni teoriche venivamo spesso avvinti da una grande sonnolenza ma gli Ufficiali istruttori stavano all’erta, erano molto esigenti durante le interrogazioni e, all’occorrenza, infliggevano anche punizioni disciplinari. E oggi capisco anche il perché di tanta severità: dovevano, in poco tempo, renderci capaci di operare con un mezzo di circa quaranta tonnellate, dotato di 57 cartocci proietti per il cannone da 105/51, di due mitragliatrici, di quattro tubi lancia fumogeni e avendo sotto il sedere serbatoi contenenti 1100 litri di carburante. Mi rendo conto, oggi però, che un piccolo errore sarebbe potuto costare la vita a me o ad altri commilitoni. In quel periodo, peraltro, facemmo conoscenza con Tenenti e Sottotenenti capicarro, Ufficiali che poi ci accompagnarono per gran parte della nostra permanenza in servizio di leva; ricordo con particolare affetto i Tenenti Mazzi e Costa, due belle figure di uomini e di Ufficiali… chissà che cosa faranno oggi.

Mentre ero a Lenta andai per la prima volta al poligono di Candelo Masazza a sparare col cannone del Leopard, fu un’esperienza abbastanza scioccante: mi schiacciai subito un’unghia nello stivare i proiettili nel carro e dovetti ricorrere all’infermeria. Nonostante ciò partecipai all’esercitazione, della quale conservo il ricordo della fatica di inserire nella culatta del cannone cartocci proietti che sembrava pesassero una tonnellata, il timore di non aver caricato bene il pezzo e, dopo lo sparo, l’odore acre che impregnava il carro nonostante gli aspiratori. Come Dio volle, trascorsi i quaranta giorni di intenso addestramento, ritornammo alla sede di Solbiate Olona.

I mesi successivi trascorsero come in ogni Reparto in guarnigione. Due particolari eventi però caratterizzarono quel periodo. Il primo fu un’esercitazione di alcuni giorni coi carri nell’area di Turbigo. Il secondo evento, fu un’esercitazione Nato. L’allarme scattò una mattina di ottobre, ricordo ancora la gran frenesia di tutti, a partire dagli ufficiali, più inflessibili del solito. Le operazioni di trasporto e l’esercitazione al poligono occuparono tutta la giornata e giunta la sera ci fu consegnata una mappa del luogo dove dovevamo accamparci. Fu una notte travagliata e interminabile, il freddo e la pioggia imperversarono fin da subito, sicché ci trovammo infraciditi perché nella fretta avevamo montato al contrario uno dei teli della tenda. Comunque, il mese di novembre decretò la fine del periodo di addestramento della mia Compagnia e, perciò, ci furono assegnati nuovi incarichi logistici, quelli che fanno andare avanti una grande caserma in tempo di pace… da grande guerriero mi ritrovai retrocesso al grado di cameriere presso la mensa ufficiali! Il beneficio del nuovo incarico era che potevo andare più spesso a casa. Ma neanche la professione di cameriere ebbe una lunga durata perché finii a fare la guardia presso la polveriera di Brescia. Furono giorni di gran freddo e notti insonni, quando la temperatura scendeva di parecchi gradi sotto lo zero, e per resistere al gelo notturno lungo il percorso di guardia, si faceva ricorso a cioccolato, a cordiali vari e ad abbigliamento da mugik russo.

Il mese di febbraio portò un nuovo cambiamento perché, a seguito all’instabilità politica nell’aera balcanica, si costituì in fretta e furia il gruppo tattico “Jugoslavia”, un reparto a livello di Battaglione destinato ad un eventuale impiego in Bosnia con i Caschi Blu dell’ONU. L’addestramento per il possibile impiego (che poi non ci fu) si tenne presso la Base Militare di Mottalciata e durò due mesi e, come il solito, freddo e pioggia non ci diedero tregua. Per fortuna l’emergenza finì e rientrammo nella nostra accogliente caserma di Solbiate Olona mentre mancavano due mesi alla fine del mio servizio di leva ma, ancora una volta, furono stravolte le mie prospettive perché fui inserito nel Battaglione in partenza per Monte Romano nell’ambito dell’esercitazione NATO “Dragon Hammer”.

Il viaggio in treno per arrivarci durò 24 ore e, in una delle tante soste più o meno lunghe, avemmo la possibilità di visitare la Piazza dei Miracoli di Pisa e il porto di Civitavecchia. Quando arrivammo a Monte Romano, dei camion tipo ACM ci portarono nell’area addestrativa che, per chi non lo sapesse, era vasta 5.000 ettari, la più grande area addestrativa militare nell’Italia Centrale. Il poligono non aveva niente a che vedere con quello di Turbigo e di Candelo perché si presentava come un territorio collinare e verdeggiante, talvolta animato da capi di bestiame che pascolavano pacificamente allo stato brado.

Furono giorni roventi, le alte temperature, il riverbero del sole sulle lamiere del carro ed il caldo vento di scirocco che spazzava il poligono rendevano l’aria irrespirabile. Si ricorreva spesso a bagnare la bandana e ad avvolgerla sul viso per rinfrescare ed agevolare la respirazione.

Ad una settimana dal termine del servizio militare facemmo ritorno a Solbiate dove si consumarono gli ultimi giorni con dei rituali che nelle nostre Forze Armate si ripetono da anni: ci furono i saluti con i più alti Ufficiali che in quei giorni sembravano tutti più buoni, poi una mattina il Maggiore Mottola mi consegnò il sospirato congedo attestante che avevo servito in armi il mio Paese.

L’ultimo ricordo che ho della caserma di Solbiate Olona (dove adesso c’è una grande Unità della NATO) fu la marcia – burla dei congedanti e il silenzio fuori ordinanza suonato apposta per noi.

Certi sentimenti di quei giorni li capisco meglio adesso che sono trascorsi trent’anni, al momento mi pervase soltanto un’emozione indescrivibile, la felicità per il ritorno alla vita comune, anche se sotto sotto aleggiava il dispiacere di lasciare alcuni compagni con i quali avevo condiviso allegria e momenti difficili, situazioni che ci avevano uniti e temprati come dei veri carristi massicci e incazzati che, poi, sarebbe la traduzione naiona del motto della nostra specialità carrista: “Ferrea mole ferreo cuore”.

Anche se sul congedo che ci venne consegnato non c’era scritto, molti di noi capirono che ci stavamo congedando anche dalla spensierata giovinezza.

(L’estensore dell’articolo è il militare con gli occhiali al centro della foto)

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