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Addio Enrico, grazie sentinella d’Italia

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La eco del colpo di pistola che ha posto fine alla vita di un giovane militare deve richiamare tutti al dovere di combattere il pernicioso virus della solitudine tra i Quadri del nostro esercito con la “medicina della vicinanza”

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Qualche giorno fa, a Roma, si è tolto la vita con un colpo di pistola il caporal maggiore Enrico De Mattia impegnato nell’operazione Strade Sicure contro il pericolo terrorista e della malavita nazionale oltre che d’importazione. Stando a quanto riportato da alcuni media, le ragioni del suo gesto sarebbero da ricercarsi nel fatto che «I ragazzi chiamati a svolgere il servizio nell’operazione sono tutti provati fisicamente ma, soprattutto psicologicamente».

È chiaro che chi ha scritto cose del genere non conosce bene i nostri militari, né li ha mai visti operare all’estero, in contesti operativi dove combattere era all’ordine del giorno e in condizioni ambientali quasi sempre estreme… più provati di così. Nonostante ciò, non abbiamo mai colto in loro un benché minimo cedimento o qualche tentativo di sottrarsi al pericolo ma, anzi, abbiamo sempre dovuto raffrenarne la gara di emulazione, di cameratismo spinto fino al sacrificio di sé, la solidarietà spesso ingenua con popolazioni non sempre nostre amiche. Peraltro, un militare impegnato in un servizio armato o comunque in operazione, quale che sia il grado, non ha il tempo di pensare al suo fisico provato, deve avere gli occhi sgranati e le testa sulle cose che sta facendo, se vuole salvare la propria vita e quella dei propri dipendenti.

Ebbene, che cosa è cambiato in questa particolare razza di uomini e di donne, perché in appena sei mesi abbiamo avuto tre suicidi in un’aliquota di appena 7.000 militari impegnati nell’operazione Strade Sicure, un servizio che tutto sommato è da considerarsi di guarnigione? Qual è il virus che sta minando la loro tempra? Di fronte ad avvenimenti così intimi e drammatici come la rinuncia volontaria alla vita, nessuno può avere certezze preconfezionate sui perché e sui per come, purtuttavia, avendo vissuto per quasi mezzo secolo in mezzo ai militari crediamo di conoscerli bene, e di conoscere anche il nome del virus che in questo momento sta aleggiando sull’operazione: la solitudine. A maggior ragione se l’estremo gesto di Enrico è stato innescato da problemi sentimentali come hanno anche ipotizzato i media.

Il tipo di presidio e di pattugliamento mediante i quali si snoda l’operazione Strade Sicure è, in genere, svolto da due militari che, da un giorno all’altro, hanno lasciato la loro caserma, distante anche centinaia di chilometri, dove tutto era chiaro, dove tutto era dato per scontato, per diventare due puntini nel microcosmo di una grande città. Non più il solito compagno di stanza cui confidarsi, non più il collega anziano e padre di famiglia sempre pronto a soccorrerli con la sua esperienza, non più gli omologanti riti della propria caserma: da un giorno all’altro tutto è diventato loro estraneo! Peraltro avendo avuto poco tempo a disposizione per ricondizionarsi come si usa dire nell’ambiente militare. E la notte, la notte passata a vegliare in una solitudine ancora maggiore di quella del giorno, quanti pensieri si rincorrono nella mente di questi giovani, pensieri belli e brutti, mentre la loro anima ha per compagni unicamente i ricordi non sempre belli, non sempre confortanti, assieme alle tremolanti ombre dell’ambiente e della memoria.

La eco del colpo di pistola che ha posto fine alla giovane vita di Enrico deve, perciò, chiamare tutti a combattere il pernicioso virus della solitudine tra i nostri militari, ma non con i comunicati dello Stato maggiore (che spesso sono anche più evanescenti delle ombre…) bensì con la medicina della vicinanza, la vicinanza dei comandanti ai loro dipendenti fuori sede, la vicinanza della popolazione ai propri angeli custodi. Quella dei militari in strada è, infatti, più di una presenza occhiuta e discreta, sono i figli del popolo in mezzo al popolo, sono i figli d’Italia – e quindi di tutti noi – che vegliano sul Paese dall’interno mentre dei folli gli stanno scoprendo le spalle dall’esterno. Ma essi sono lì senza nulla chiedersi, unicamente per fare il proprio dovere, spesso in compagnia d’insopportabili ambasce personali.

Perciò, non facciamo mancare ai tanti Enrico in mimetica il dono di una bottiglietta d’acqua fresca mentre picchia il solleone, un sorriso riconoscente, qualche parola di gratitudine, od anche un semplice saluto con la mano accompagnato da un «Grazie ragazzi…». Aiuterebbe a far sentire meno sole queste giovani sentinelle d’Italia e, in fondo, anche tutti noi.

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