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Abbiamo fatto diventare barzelletta l’inclusione

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La propensione statuale all’inclusività fa certamente onore agli ordinamenti occidentali, ma può rivelarsi molto pericolosa se, poi, non è capace di uscire dalla sua dimensione teoretica in presenza di attività che, per essere svolte in sicurezza, richiedono imprescindibilmente il massimo della forma fisica e intellettuale

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Giovedì scorso, negli Usa, un aereo della American Airlines si è scontrato in volo con un elicottero Black Hawk, guidato da due piloti militari, provocando complessivamente 66 morti. Nella circostanza, il neo presidente Donald Trump se l’è presa col segretario ai trasporti dell’amministrazione Biden, Pete Buttgieg (omosessuale dichiarato), accusandolo di aver assunto personale nel settore dei trasporti e del traffico aereo privilegiando le logiche connesse all’inclusione piuttosto che alla competenza, chiudendo così il suo pensiero: «…la verità è che noi dovremmo avere le nostre menti migliori a sorvegliare sulla sicurezza dei nostri cieli e aeroporti». Al momento non siamo in grado di dire se durante l’amministrazione Biden le assunzioni nel trasporto aereo americano siano state realmente fatte col criterio sostenuto dal Tycoon, certo è che l’inclusione ad ogni costo, il voler caparbiamente inserire un soggetto con ridotte capacità funzionali in un settore dove l’efficienza psicofisica, la competenza e la reattività sono di fondamentale importanza soltanto perché è gay, o lesbica, o bianco, o nero, può essere estremamente pericoloso e dovrebbe indurci a più di qualche riflessione.

Intanto bisogna dire che l’inclusione sociale è una scelta morale e filosofica perché si preoccupa di stabilire (sulla carta) la condizione giuridica nella quale devono vivere tutti gli individui, in un regime di equità e di pari opportunità, comprese le persone che versano in situazione di handicap: a riguardo di queste ultime, le leggi delle democrazie occidentali prevedono addirittura istituti che si occupino del loro graduale inserimento nelle attività svolte dai normotipi. Questa propensione statuale fa certamente onore ai nostri ordinamenti ma, come dicevamo, può rivelarsi perniciosa se, poi, non è capace di uscire dalla dimensione teoretica in presenza di attività che, per essere svolte in sicurezza richiedono imprescindibilmente il massimo della forma intellettuale e fisica di un individuo.

Infatti, se ci allarga il cuore la vista di un nostro simile sulla sedia a rotelle che viene inserito negli uffici della pubblica amministrazione, o nella scuola, o nella televisione, o nel mondo della ricerca, o nella politica (spesso con risultati nettamente superiori a quelli dei normotipi), ci farebbe certamente scendere precipitosamente da un aereo la vista del pilota che raggiunga la cabina di pilotaggio sulla sedia a rotelle spinta dalle hostess. Ciò perché anche se a noi non interessa per niente la motricità, il colore della pelle, o la religione, o le preferenze sessuali di coloro nelle cui mani dobbiamo mettere la nostra vita o quella dei nostri cari, teniamo in grande considerazione il loro background professionale e un equilibrato stato di salute fisica e mentale.

Pertanto, fuori dalle scatole i dogmatismi del politically correct e dell’ideologia woke e ritorniamo con i piedi ben saldi per terra, perché alla base dell’efficienza psicofisica laddove essa è imprescindibile, v’è una parolina che, chissà perché, la sinistra globale ha in uggia: selezione. Vale a dire la scelta degli elementi più efficienti in base a caratteristiche oggettive di qualità e rispondenza a ciò che sono chiamati a fare, in applicazione a criteri funzionali o scientifici. Giusto per fare degli esempi a riguardo, un pilota deve possedere i requisiti per poter fare bene il pilota in ogni condizione d’impiego, un militare quelli per poter fare bene il militare, lo stesso dicasi per il pompiere o l’astronauta. D’altronde, un portatore di handicap potrebbe anche essere un genio nell’amministrazione e guida della base spaziale di Cape Canaveral, ma non per questo sarebbe anche idoneo per essere lanciato nello spazio. Da tutto ciò discende che il prendere atto che un soggetto non sia idoneo a svolgere determinate mansioni non significa escluderlo dall’inclusione ma, anzi, immetterlo nel processo inclusivo a lui più congeniale.

Poi v’è un altro tipo d’inclusività che bisognerebbe depennare dall’ideologia woke per inserirla nel glossario delle malattie psichiatriche pericolose: si chiama “inclusività immaginaria”. Essa, infatti, come primo sintomo produce la rimozione d’inoppugnabili verità storiche, come quella legata alla diffusione dell’Islam, una religione aggressiva i cui seguaci vengono in Occidente non per includersi ma per includerci, ovvero per sottometterci alla loro medioevale concezione della vita e della società. E il paradosso è che, a dar loro manforte, sono proprio coloro che ne sarebbero le prime vittime in caso di affermazione, come dire la cultura woke, la Chiesa cattolica alla parossistica ricerca di una qualche convivenza col Corano, i movimenti femministi e quelli dei gay.

Ma questo è soltanto un aspetto del disastro sociopolitico che va pian piano apparecchiandosi, nelle nostre società perché, anche in questo specifico campo l’inclusività viene ottenuta a discapito della selezione tra chi avrebbe i requisiti e chi, invece, no. La parte del curandero di questa follia autodistruttiva dell’Occidente la sta oggi interpretando alla grande Donald Trump, al quale, ne siamo pressoché certi, si affiancheranno via via molti altri leader politici, quelli che il consunto vocabolario del politicamente corretto continuerà a chiamare populisti (a riprova che non ci ha capito un cazzo), mentre dovrebbe definirli realisti oppure, se volete,  osservanti della volontà dei loro popoli. Perchè è così che dovrebbe avvenire in democrazia laddove, peraltro, includere non significa chiudere gli occhi sul problema come fanno i cosiddetti progressisti.

(La copertina è di Donato Tesauro)

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